Il default della Russia è stato definito “non più improbabile” dal Fondo Monetario in una dichiarazione pubblica del direttore generale Kristalina Georgieva. Si tratta dell’attesa di una ratifica formale per uno status che è di fatto già effettivo da quanto il governo russo ha imposto ai residenti russi e alle entità controllate dallo stato il regolamento in rubli delle obbligazioni verso le controparti estere. A corredo di questa dichiarazione il fondo ha anche specificato che l'esposizione totale delle banche verso la Russia pari a circa 120 miliardi di dollari non è "sistemicamente rilevante" e dunque non sussiste il rischio che possa innescare crisi per il sistema finanziario internazionale.
Come illustrato nel podcast precedente le principali preoccupazioni per l’economia mondiale riguardano i contraccolpi sui mercati delle materie prime e l’aggravamento di tensioni inflazionistiche già in corso. In particolare, si parla ancora della possibilità che lo shock sui prezzi possa accompagnarsi ad una recessione dando vita al temuto fenomeno della stagflazione, anche se per il momento le previsioni sulla crescita si limitano ad un rallentamento e non ci sono segnali di una vera recessione.
La variazioni sui mercati dell'energia, dei metalli e degli alimenti sono state molto rilevanti. Gli indici globali dei prezzi delle materie prime sono in crescita del 26% rispetto all'inizio del 2022. Le fluttuazioni del prezzo del petrolio lo hanno portato a livelli paragonabili allo shock che si è verificato con l’invasione del KuWait da parte dell’Iraq nel 1990. I prezzi del gas in Europa sono quasi triplicati a fronte della prospettiva che i gasdotti dall'est saranno fatti esplodere o saranno privati della fornitura. Il prezzo del nichel, usato tra l'altro in tutte le auto elettriche, è salito al punto da far sospendendere le contrattazioni alla borsa di londra causando perdite molto rilevanti ai trader speculativi cinesi.
In un Editoriale dell’Economist di questa settimana si evidenzia come l’economia mondiale sia oggi meno dipendente dal petrolio e questo dovrebbe mitigare i potenziali effetti recessivi. Secondo uno studio del gestore di fondi Pictet, nei sei casi in cui, a partire dal 1970 il prezzo del petrolio è salito più del 50% rispetto al proprio trend c’è sempre stata una recessione, ma questo legame non va interpretato in modo troppo automatico. La crescita dei prezzi delle materie prime o una riduzione nelle quantità disponibile tipicamente riduce l’offerta aggregata di beni e servizi perché le imprese hanno difficoltà a produrre e colpisce anche la domanda perché ad esempio la maggiore spesa per consumi energetici riduce la possibilità di acquistare altri beni. Inoltre una politica monetaria restrittiva per controllare l’aumento dei prezzi potrebbe aggiungere un impulso negativo alla crescita economica
Le tre caratteristiche che rendono l’economia contemporanea meno sensibile agli shock petroliferi, secondo il settimanale britannico sono il minore contributo del consumo di petrolio alla realizzazione del Pil Globale, una risposta differente da parte delle autorità di politica economica e la maggiore capacità degli Stati Uniti di produrre petrolio.
Sotto il primo profilo, nel 1973 il mondo utilizzava circa un barile di petrolio per ogni 1000 dollari di Pil in termini reali. Questo valore nel 2019 era calato a circa 0,43 barili. Tra i miglioramenti di efficienza si rileva, tra l’altro, che le automobili hanno raggiunto una autonomia doppia in termini di km percorsi per gallone consumato rispetto agli anni ’70.
Sotto il secondo profilo, governi e banche centrali hanno imparato che imporre provvedimenti come il controllo dei prezzi, come sperimentato negli anni ’70 ha l’effetto di ridurre la quantità offerta di petrolio aggravando ulteriormente la recessione. Per questo motivo a partire dagli anni 80 questo tipo di provvedimenti non sono stati più implementati, con il risultato di una maggiore volatilità dei prezzi, ma anche di una maggiore rapidità di aggiustamento.
A questo si può aggiungere che cambiamenti nella tecnologia e nelle abitudini delle persone consentono di consentono di eliminare alcuni spostamenti non essenziali ricorrendo al lavoro e alle riunioni da remoto, così come al commercio elettronico.
Ultimo punto evidenziato dall’Economist è la posizione degli Stati Uniti che in seguito alla rivoluzione dello Shale oil è riuscirà a ridurre le proprie importazioni nette arrivando ad essere nel 2020 esportatore netto per la prima volta dal 1949.
Per concludere, lo shock attualmente in atto continuerà ad avere effetti significativi sull’inflazione e contribuirà a frenare la crescita economica a livello globale. Tuttavia, la minore dipendenza dal petrolio rispetto agli anni passati unitamente ad un diverso approccio delle autorità di politica economica e al contributo dato dall’innovazione tecnologica rendono al momento ancora improbabile il ripetersi dei fenomeni di stagflazione ai quali abbiamo assistito negli anni ‘70.
Riferimenti:
https://www.economist.com/finance-and-economics/2022/03/12/how-oil-shocks-have-become-less-shocking
https://www.economist.com/leaders/2022/03/12/war-and-sanctions-have-caused-commodities-chaos