Silicon Valley Bank non è Lehman
L'intervento tempestivo della Fed dovrebbe evitare l'effetto contagio
La finanza in soldoni è un Podcast di educazione e informazione finanziaria a cura di Massimo Famularo
Il fallimento della banca statunitense Silicon Valley Bank ha destato non poche preoccupazioni per le possibili ricadute a livello internazionale rievocando scenari apocalittici come quelli che abbiamo attraversato ai tempi del fallimento di Lehman Brothers. Allo stato attuale, anche in virtù del tempestivo intervento della banca centrale e del tesoro americano sembrerebbe che i rischi di un “effetto domino” sul sistema bancario americano siano scongiurati e che le ripercussioni a livello internazionale possano essere tutto sommato limitate.
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Cosa è successo alla banca delle startup americane?
La Silicon Valley Bank è fallita in seguito ad una corsa agli sportelli l’organo di viglianza al quale era sottoposta, il California Department of Financial Protection and Innovation (DFPI), l’ha posta in amministrazione controllata sotto la gestione del Federal Deposit Insurance Corporation. Al momento del default la SVB era 16ma banca per totale attivi negli Stati Uniti e la più grande operante nel distretto della Silicon Valley.
Il fallimento di questo istituto costituisce quasi un caso di scuola perché strutturalmente le banche raccolgono depositi a breve termine, sui quali corrispondono interessi nulli o molto bassi e offrono finanziamenti a medio e lungo termine applicando tassi più elevati e guadagnando dalla differenza dei tassi nota come margine di interesse. Uno dei rischi più comuni in questo tipo di attività è che si inneschi una crisi di fiducia da parte dei depositanti e che un numero molto elevato di questi decida di prelevare i prorpi fondi mettendo in difficoltà la banche che li ha impiegati in attività poco liquide o in strumenti finanziari come le obbligazioni a lungo termine che, in un contesto di tassi in crescita rispetto al momento in cui sono state acquistate, comportano delle perdite in conto capitale per essere realizzati.
Dunque cosa è successo?
Che la SVB ha impiegato una parte rilevante dei fondi raccolti in obbligazioni a lungo termine prima che si verificasse il rialzo dei tassi osservato a partire dallo scorso anno. Quando i tassi sono saliti il valore di mercato di questi titoli è calato comportando delle “perdite teoriche” per gli istituti che li possiedono. Nel momento in cui molti depositanti hanno chiesto di prelevare i propri fondi l’istituto è stato costretto a vendere questi titoli realizzando le perdite.
Un elemento da tenere presente è che, per ovviare al problema della corsa agli sportelli, esiste una assicurazione che garantisce i depositi fino ad una certa soglia, che negli stati uniti è posta a 250mila dollari. Dal momento che l’istituto in discussione aveva come clienti imprese, molte di esse avevano depositi eccedenti questa soglia e dunque non assicurati. Per certi versi si può dire che il timore che l’istituto potesse fallire ha contribuito alla realizzazione del fallimento.
Al di là degli aspetti più tecnici cosa dovrebbe preoccuparci di una banca americana dedicate alle aziende innovative?
Il problema principale è la possibilità che la crisi di fiducia si estenda al di là delle banche inizialmente fallite e generi una sorta di effetto domino in cui i risparmiatori si spaventano, corrono a prelevare i propri risparmi e con questo comportamento causano il fallimento di altri istituti. La federal reserve e il tesoro degli stati uniti sono corsi ai ripari introducendo delle misure straordinarie per impedire il diffondersi del contagio.
In primo luogo per i clienti di SBV la copertura dei depositi è stata stesa anche alle quote eccedenti la soglia dell’assicurazione ordinaria, dunque nessuno dei depositanti subirà danni dal dissesto della banca. Inoltre per evitare che altre banche si trovino in difficolta a fronte di richieste eccessive di prelievo la banca centrale ha attivato un meccanismo per il quale i titoli che attualmente comporrebbero delle perdite se venduti, possono essere dati in garanzie per ottenere liquidità: se uno strumento del genere fosse stato a disposizione della banca il suo fallimento non si sarebbe verificato.
Una responsabilità rilevante in questa vicenda si può ascrivere all’allentamento delle regole di supervisione degli istituti di credito realizzato sotto l’amministrazione Trump. Dopo la crisi finanziaria, la legge americana Dodd-Frank aveva imposto alle banche con un patrimonio superiore a 50 miliardi di dollari di seguire una serie di nuove regole di sicurezza, tra le quali spiccava la creazione di un piano per la loro risoluzione ordinata in caso di fallimento. L'auspicio era che una combinazione di forti riserve di capitale per le banche e un'attenta pianificazione avrebbe protetto i depositi e i sistemi di pagamento, mentre le perdite sarebbero state trasferite agli investitori in modo ordinato. Nel 2018 e nel 2019, tuttavia, il Congresso e le autorità di regolamentazione bancaria hanno annacquato sia la pianificazione della risoluzione che le norme sulla liquidità, in particolare per le banche con un attivo di 100-250 miliardi di dollari, molte delle quali avevano fatto pressioni per una regolamentazione più leggera.
Alla fine dei conti, quanto è grave la situazione e quanto dovremmo preoccuparci?
Il linea di massima il fallimento di SVB è stato un evento normale che non avrebbe avuto questa risonanza e addirittura si sarebbe potuto prevenire se l’istituto fosse stato soggetto alla regolamentazione prevista per gli istituti più grandi. L’intervento del tesoro e della banca centrale è stato molto incisivo e tempestivo ed è verosimile che le conseguenze in termini di “contagio” di altri istituti saranno limite. Questo non vuol dire che non ci saranno: l’esperienza di SVB ha portato l’attenzione sul fatto che il rialzo dei tassi d’interesse ha comportato per molti istituti una situazione in cui il prezzo di vendita immediata dei titoli in portafoglio è inferiore al valore di acquisto; dunque, nelle circostanze in cui queste banche fossero obbligate a vendere, realizzerebbero delle perdite consistenti.
L’agenzia di rating Moodys ha ridotto il proprio giudizio sul settore bancario americano e messo sotto osservazione alcuni istituti di credito per valutare la possibilità di un peggioramento del giudizio.
In Europa le banche sono soggette a regole più stringenti e risultano “vaccinate” dall’esperienza della crisi dei debiti sovrani nel 2012 culminata con il celebre “whatever it takes” di Mario Draghi. Dunque non dovrebbero esserci particolari criticità sotto questo versante. Le tensioni sui mercati finanziari dovrebbero rivelarsi temporanee e passeggere per gli istituti di più grandi dimensioni e con una struttura patrimoniale più solida e potrebbero causare difficoltà maggiori alle banche più piccole e fragili e alle imprese che avevano già delle difficoltà di accesso al credito che potrebbero sperimentare restrizioni ancora mggiori e un peggioramento delle condizioni applicate.
In questo contesto è possibile che la Federal Reserve rallenti il percorso di rialzo dei tassi sul quale era avviata e che questo influenzi anche le scelte delle altre banche centrali.
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