La discussione sullo #smartworking, in particolare per quello che riguarda la Pubblica Amministrazione, è spesso affetta da distorsioni ideologiche. In genere, il dibattito si polarizza tra chi vede i dipendenti pubblici come “fannulloni”, che magari prendono il lavoro da remoto come un’opportunità per NON lavorare da casa e chi invece si trincera dietro la difficoltà di valutare le prestazioni della pubblica amministrazione, tacitando tutte le discussioni con una lapidario “nessuno mi può giudicare”
Secondo i programmi del ministro Brunetta, in autunno dovrebbe arrivare la nuova normativa che disciplina il lavoro da remoto nella PA e già si preannunciano discussioni accese. Dalle anticipazioni circolate fino a questo momento, la modalità prevalente di svolgimento dovrebbe tornare ad essere in presenza, limitando la possibilità di #smartworking ad una serie di casistiche ben definite, per una quota minoritaria rispetto al monte orario complessivo e disciplinando a livello individuale le modalità operative.
Forse per indorare la pillola o per difendere questo “passo indietro” uno degli argomenti alla base del rientro in presenza è costituito anche dal contributo positivo al Prodotto Interno Lordo. Sempre secondo il ministro Brunetta, le spese e i consumi tipicamente legati allo spostamento per recarsi al lavoro, venuti meno durante i periodi di lockdown e di lavoro a distanza, potrebbero favorire una crescita economica aggiuntiva anche superiore alle già rosee previsioni per l’anno in corso e per il successivo.
Cosa manca in tutti questi argomenti? Manca una visione prospettica su questo strumento, che esuli dalle necessità temporanee legate all’emergenza sanitaria e tenga conto di alcuni mutamenti strutturali, che la pandemia ha accelerato e che non potranno tornare indietro.
Il dito dello smart working punta necessariamente verso la luna della necessità di ripensare i rapporti di lavoro in ottica più flessibile, orientata a risultati misurabili e a precise responsabilità dei singoli lavoratori. La visione del rapporto di lavoro legata alla presenza fisica in un dato luogo e per un dato tempo, a prescindere dall’attività svolta alla luce della gigantesca sperimentazione realizzata nel corso della pandemia si è rivelato improvvisamente anacronistica e in prospettiva difficilmente sostenibile.
Datori e lavoratori che hanno sperimentato come sia possibile svolgere le stesse mansioni senza i vincoli tradizionali e conseguire guadagni in termini di produttività e qualità della vita, difficilmente potranno tornare indietro come se nulla fosse accaduto.
Ma la maggiore libertà nello svolgimento del lavoro porta con sé maggiori responsabilità nel conseguimento dei risultati e questo comporta criticità maggiori in quei contesti, come la pubblica amministrazione, nei quali un monitoraggio intensivo dell’attività svolta e la misurazione dei risultati ottenuti presentano criticità e resistenze ideologiche.
Per riassumere, l’approccio del ministro appare volto ad affermare una posizione di forza come castigatore di dipendenti pubblici e difensore delle attività economiche legate all’indotto degli spostamenti per lavoro. Manca una seria riflessione e discussione su come ripensare i contratti di lavoro per adeguarli alle mutate esigenze di un rapporto che si basa sempre meno sulla permanenza in un luogo in un dato intervallo temporale e sempre più sul conseguimento di obiettivi misurabili.
La gestione dello smartworking nella PA costituirà un importante banco di prova per l’efficacia dell’agenda riformista del governo Draghi. Se si limiterà a salvaguardare aspetti di facciata allora vorrà dire che il declino inesorabile sul quale era avviato il nostro paese prima della pandemia sarà solamente rinviato.